Nell’immenso vuoto oceanico che separa il Vecchio dal Nuovo Mondo, esiste un minuscolo luogo interstiziale dove si connettono non solo Europa, Africa e America Latina, ma anche le epoche della preistoria, delle conquiste coloniali e della contemporaneità, come pure il mondo della natura vergine e quello delle urbanizzazioni ipermoderne. Questo luogo in cui pare essere rimasta aperta la soglia, il passaggio, l’intersezione che s’insinua fino al “chissà dove”, fino alle mitiche contrade dei Campi Elisi, è l’arcipelago delle Canarie. Sette isole vulcaniche poco più a nord del Tropico del Cancro, a qualche centinaio di chilometri dalle coste marocchine, a mille dalla Penisola Iberica e a migliaia dai Carabi: ci troviamo dunque all’estremità sud-occidentale della Spagna e di tutta l’Unione Europea; di qui passava un tempo il Meridiano Zero, a indicare il limite ultimo delle terre conosciute dagli antichi. Quando si arriva alle Canarie, il senso di spaesamento spaziale e temporale può far venire le vertigini. Sembra di essere arrivati in un luogo che ricorda tutti i luoghi e che, al tempo stesso, non assomiglia a nulla. Vi sono immense distese desertiche, con le dune, le oasi, le palme e i dromedari, come nel Sahara marocchino; scogliere altissime dove si frangono cavalloni enormi, come lungo le coste del Portogallo; valli verdeggianti, punteggiate di cactus, banani e cespugli fioriti, con chiesette bianche, e case pure bianche e basse, aperte su un atrio dai balconi di legno, come in America Latina; foreste vergini, con liane e tronchi marcescenti, come nelle giungle tropicali; distese nerastre di magma rappreso, come alle falde dell’Etna; villaggi turistici con shopping centre, parchi acquatici e villette a schiera, come in un qualsiasi centro vacanze dell’Europa mediterranea… Così, puoi avere volte l’impressione di non essere mai partito, per continuare a muoverti in uno spazio globalizzato della contemporaneità, con gli identici prodotti commerciali, gli identici cibi internazionali, le identiche architetture impersonali, tipiche di ogni luogo segnato dalla mondializzazione. Ma molte altre volte, invece, non appena giri l’angolo e lasci le urbanizzazioni del turismo di massa, eccoti precipitato in contrade dal sapore ancora coloniale, con le haciendas, le piantagioni di banane, i corrales per il bestiame, come ai tempi della colonizzazione spagnola, cominciata nel Quattrocento, subito prima di quella americana. E non basta: perché qui ti confronti pure con il lascito degli antichi aborigeni, rimasti fermi al tempo del Neolitico fino all’arrivo dei Conquistadores: toponimi dai suoni misteriosi (Tapahuga, Guayedra, Timanfaya…), abitacoli in pietra, geroglifici incisi sulle rocce… E puoi finire più indietro ancora, fino ai tempi primordiali delle silenti foreste di lauri, che prima dell’ultima glaciazione ricoprivano l’Europa meridionale, e che solo qui sono rimaste intatte… Sono luoghi di una bellezza tale, oltretutto immersi in un clima di eterna primavera, da meritare l’appellativo (reso celebre da Torquato Tasso) di “Isole Fortunate”: come se l’arcipelago corrispondesse davvero alle “Isole dei Beati” vagheggiate nei miti dell’antichità classica; come se qui ci fosse l’interstizio in cui la Terra si affaccia sul Giardino delle Esperidi…
Giampiero Comolli, scrittore